A partire dal XII secolo in Umbria, come nel resto d’Italia, furono soprattutto gli ordini monastici a dare nuovo impulso e nuova vita alla coltivazione degli olivi e alla produzione dell’olio d’oliva, il cui uso e consumo era stato scarso per tutto il periodo altomedievale a causa delle numerose distruzioni subite dalle campagne, che avevano portato a un conseguente impoverimento degli oliveti.
L’olio d’oliva tornò, dopo il periodo romano, ad essere un prodotto prezioso dalle innumerevoli funzioni; grazie ad esso si accendevano le luci sugli altari sacri e non mancava mai nei rituali religiosi più importanti, come la cresima e l’estrema unzione.
A differenza dell’antica cucina romana però, di cui era stato un elemento fondamentale, l’olio non fu tra gli alimenti di spicco della gastronomia del Medioevo, poiché di gran lunga più costoso di altri grassi sicuramente meno salutari ma a buon mercato come ad esempio lo strutto e il lardo; l’utilità dell’olio in molte circostanze, ne imponeva un uso piuttosto parsimonioso. I monaci lo utilizzavano anche come medicinale grazie alle sue portentose proprietà lenitive, decongestionanti, idratanti e nutritive. Sembra che venisse usato per curare il mal di testa e la scabbia, fastidiosa malattia contagiosa della pelle all’epoca assai frequente, ma anche per contrastare l’alopecia e la forfora. Tra i tanti rimedi naturali, l’olio era usato insieme al vino come medicamento, chiamato Balsamo del Samaritano, si usava per le scottature e per lenire il dolore delle ulcere; ma erano conosciuti sin dai tempi più antichi per i loro effetti salutari: lenendo le ferite l’olio ne impediva l’essiccazione, e alla sua azione si aggiungeva quella leggermente battericida del vino.
I monaci benedettini di San Felice non furono quindi da meno; fedeli alla loro regola “ora et labora”, avrebbero trapiantato, per riprendere la coltivazione delle terre dopo il periodo di abbandono un tipo di olivo, denominato in seguito Cultivar San Felice, che ha subito attecchito diffondendosi in alcune limitate zone e producendo un’eccellente qualità di olive. Gli Agostiniani proseguirono poi la vocazione agricolo dei vecchi proprietari; all’interno dell’abbazia infatti vi era un vero e proprio molino a trazione animale che rimase in uso per molti secoli.
La cultivar autoctona San Felice concorre oggi a caratterizzare la Dop Umbria, sottozona “Colli Martani”, insieme al Moraiolo (che è la varietà più diffusa sulle colline della regione) e ad altre cultivar come Leccino, Frantoio e, in misura minore, Rajo e Vocio. La combinazione fra diverse varietà e l’ambiente microclimatico particolarmente favorevole garantiscono la qualità organolettica e l’unicità dell’olio di Giano dell’Umbria, esportato, già a partire dal XVIII secolo, in Toscana, Romagna e nelle Marche.
La raccolta delle olive, anticipata rispetto al passato, avviene prevalentemente mediante brucatura a mano, mentre la lavorazione nei sei frantoi ancora attivi utilizza tecnologie di estrazione moderne, generalmente a ciclo continuo, per ottenere standard di qualità sempre elevati.